Giampiero Cicciò porta stasera a Taormina "I miei occhi cambieranno"

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Questa sera al Palazzo dei Congressi di Taormina (sala B) Federica De Cola sarà in scena con “I miei occhi cambieranno”, tratto da Certo che mi arrabbio di Celeste Brancato con la regia di Giampiero Cicciò.

Note di regia

Mettere in scena un testo di Celeste significa, innanzitutto, lasciarmi guidare dalle sue parole. Ho condiviso con lei vent’anni di vita e di lavoro, innumerevoli spettacoli, lo stesso pianerottolo, la Bottega teatrale di Gassman, le stesse utopie… Già prima della malattia, la sua vita era dedicata alla ricerca di un senso più alto dell’esistenza: le sue letture sul buddhismo, l’indignazione per un’Italia guasta e miserabile (espressa in tutti i suoi scritti), l’orrore per l’omologazione brutalmente dittatoriale del mondo, il suo amore per il teatro malgrado tutto, la rendevano inquieta ma agguerrita. A volte intuivo la sua amarezza, ma poco dopo la ritrovavo tenacemente fiduciosa (come sa esserlo solo chi combatte quotidianamente affinché le proprie aspirazioni non si trasformino in disincanto). Le ultime parole che mi ha detto, pochi giorni prima di perdere conoscenza, sono state: “Tutto nasce da dentro”. E io ho pensato a Novalis: “Le malattie, specialmente le lunghe malattie, sono anni di apprendistato dell’arte della vita e della formazione dello spirito”.

In Certo che mi arrabbio, testo nel quale racconta la lotta contro il suo male, Celeste sorprende per un’impronta di travolgente comicità, per la sua impetuosità e, insieme, per la delicatezza; e affascina per la sagace abilità narrativa con cui, nitidamente, rivive certi episodi del suo passato animati da una scrittura graffiante e malinconica. È un lungo diario, un fiume vorticoso sconvolto da turbolenze improvvise, stati d’animo a più facce, situazioni esaltate da uno stile evocativo che svela una ventennale frequentazione col Teatro. Tra le possibilità di attuazione scenica di questo testo, ho prediletto il percorso di una donna che, attraverso il dolore del corpo, tenta con fatica di rintracciare il proprio dolore spirituale: I miei occhi cambieranno diviene, pertanto, più di una frase tratta da quest’ultimo scritto di Celeste: è un’esortazione alla trasformazione o, meglio, un incitamento a ritrovare, ad accettare l’autentica nostra “vocazione” (la ricerca della Verità e della purificazione) che se trascurata, ignorata, abbandonata, si ribella e coinvolge il nostro corpo (i cui sintomi dolorosi, come sostiene Thorwald Dethlefsen, sono i segnali che l’anima bistrattata ci manda: “In questo mondo – scrive lo psicoterapeuta tedesco – non c’è niente da migliorare all’infuori della nostra ottica”).

E questa mia lettura si intreccia con quella della filosofa Giusi Venuti, studiosa di bioetica, che ha curato con me l’adattamento del testo: la storia di Celeste diventa così la storia di ognuno di noi, di chi, ad un certo punto della vita, è costretto a spogliarsi della persona sociale che era per diventare “paziente”. I miei occhi cambieranno è un urlo di ribellione lanciato da chi non vuole essere ridotto a mero “caso clinico” e che tenta, disperatamente, di mostrare che il dolore ci trasforma, ci perfeziona (ma solo se accettiamo di viverlo come una possibilità di cambiamento dei nostri occhi, del nostro modo di guardare, di stare al mondo). Cambiare. Ciascuno secondo la propria imprevedibile storia e attraverso le proprie inevitabili ferite, inseriti tutti nella medesima vicenda esistenziale scandita, sì, dall’umana e ineliminabile vulnerabilità ma, più di ogni altra cosa, dalla medesima tensione evolutiva.